mercoledì 5 giugno 2013
Femminicidio: analisi di Corigliano
Da Micromega:
Al delitto della giovane Fabiana di Corgliano Calabro è seguita la solita retorica del lutto inatteso e imprevedibile. Nulla di più sbagliato: quel delitto (insieme a tanti altri simili ad esso) è frutto di un clima culturale retrivo e opprimente, che costringe la donna a una sottomissione permanente alla famiglia, alle aspettative del collettivo, e infine al maschio.
di Barbara Befani e Fabio Sabatini
È insopportabile la retorica che vuole “sotto shock” il villaggio, stavolta Corigliano Calabro, in cui si è consumato l’ennesimo femminicidio. È insopportabile la retorica che attribuisce un lutto inatteso e imprevedibile a una famiglia ignara e innocente.
È insopportabile perché ad essere responsabile di questo femminicidio, di tutti quelli avvenuti e di quelli che verranno, è la cultura medievale e sessista condivisa e coltivata nella famiglia, nel villaggio e nel resto del paese. È difficile credere che si senta davvero “sotto shock” un paese in cui tutti sapevano che l’assassino era un violento che girava con il coltello in tasca, che già era stato denunciato per aver spaccato il naso alla vittima, prendendola a pugni, per gelosia (denuncia subito ritirata). Una madre che, appena vede uscire l’assassino dall’ospedale, gli domanda soltanto, secondo il racconto di Niccolò Zancan su La Stampa: “Dove me l’hai buttata?”. Parole che, di per sé, fanno pensare alla vittima come a un oggetto di cui disfarsi o, nell’ipotesi migliore, a un oggetto da consegnare al primo uomo che se la fosse presa in carico. E un padre che si limita ad affermare la sua “mancanza di approvazione” per un uomo che spacca il naso di sua figlia, mostrando apertamente di volerla possedere come un oggetto.
Un villaggio, quello che si presume sotto shock, nel cui bar sport, severo e insindacabile tribunale degli eventi cittadini, circolano commenti dai toni assolutori, che ricordano i problemi che il carnefice, poverino, deve aver avuto per colpa della madre che metteva le corna al padre con un direttore del Comune. Insomma la colpa è sempre di un’altra donna.
Chissà quante volte la famiglia, quel paese, quella cultura, devono aver mandato a Fabiana certi messaggi che la spingevano a sopportare la situazione, a mettere il suo benessere e la sua felicità dopo quella dell’uomo. A farle confondere, prima di dire basta, “amore maschile” con “volontà di controllo” e “amore femminile” con “cedimento alla volontà di controllo”.
Messaggi che sono continuati a pervenire subito dopo il femminicidio, con l’arcivescovo (considerato la massima autorità locale, chiamata a consolare la famiglia della vittima e dare pubblicamente una ragione dell’accaduto al posto di una istituzione dello Stato), che dichiara: “Preghiamo per colui che ha commesso il terribile omicidio, perché prendendo consapevolezza della gravità di quanto ha compiuto non sia sopraffatto da irrimediabili sensi di colpa ma si incontri col Dio della verità e della misericordia, che a tutti offre una strada possibile di giustizia, perdono, conversione, cambiamento di vita”.
Quell’arcivescovo che si preoccupa solo di lui, il carnefice, affinché sia perdonato e non sia sopraffatto dai sensi di colpa. Direbbe mai un arcivescovo che una donna non deve essere sopraffatta dai sensi di colpa? Quell’Arcivescovo che per rimediare alla vicenda sottolinea il bisogno di “puntare su un umanesimo che vede l’uomo per quello che è, bisogna ripartire dall’uomo e metterlo al centro”. No, caro Arcivescovo, questa vicenda ci insegna che l’uomo è già al centro, semmai è la donna che dovrebbe essere messa al centro. Ma per l’Arcivescovo, così come per il resto dell’umanità che continua a usare la parola “uomo” per riferirsi alla generica umanità, le donne non sono persone.
Fabiana è morta come un cane. È stata bruciata viva a 15 anni perché non voleva appartenere a un uomo, a colui che si era messo in testa di esserne il proprietario, con la collaborazione delle famiglie, del paese, della società, del sistema.
Eppure, nelle dichiarazioni del vescovo e nei giornali, nessuna condanna di questo sistema, del clima culturale retrivo e opprimente che costringe la donna a una sottomissione permanente alla famiglia, alle aspettative del collettivo, e infine al maschio, descritto bene da Domenico Naso sul Fatto Quotidiano. “La trattava come un oggetto”, hanno riferito i compagni di scuola della vittima ai giornalisti. Ma nessuno ha sentito il bisogno di denunciare l’oggettificazione del corpo femminile che perpetua la pretesa, il diritto, da parte del maschio, di trattare la propria compagna come un oggetto di sua proprietà.