mercoledì 13 agosto 2008

Le repubbliche dei pirati


Oggi parlerò di un libro singolare: Le repubbliche dei pirati di Peter Lamborn Wilson alias Hakim Bey edito da Shake. Parla di una particolare comunità che tra il 1500 e il 1600 con le gesta dei suoi membri, famose, famigerate e infami, raggiunse l’immortalità entrando per sempre nell’immaginario di noi occidentali (e non solo). Parlo naturalmente dei corsari.
Molti credono che la pirateria sia stata un fenomeno prettamente atlantico e caraibico. Niente di più sbagliato. Corsari e rinnegati solcavano le rotte del Mediterraneo a caccia di galeoni anche in tempi precedenti il boom di Barbanera. La maggior parte di essi si convertì alla religione islamica; moltissimi erano schiavi liberati e alcuni erano nobiluomini che fuggivano dai loro paesi o che trovarono nella vita corsara la loro realizzazione.
Morat Reis era un albanese che si fece un nome catturando un duca siciliano e saccheggiando una galea papale. La sua avventura più audace fu di portare una squadra di quattro galee attraverso lo stretto di Gibilterra fino a Salè (porto franco pirata) dove si unirono altri tre capitani pirati e da lì partirono per le Canarie. Saccheggiarono Lanzarote, rapirono moglie e figlia del governatore insieme a centinaia di ostaggi. Dopo una crociera per le isole e diversi sbarchi per catturare bottini e ostaggi, issarono una bandiera per parlamentare e ottennero il riscatto dei prigionieri più importanti. Gli altri ostaggi furono venduti come schiavi. Gli ostaggi cessavano di essere tali nel momento in cui decidevano di unirsi ai corsari, acquisendo così diritti sui bottini e libertà di azione. Molti furono i convertiti all’islam e alla pirateria. Gli spagnoli, preavvisati del ritorno dei corsari sullo stretto di Gibilterra, cercarono di intercettarli, ma Morat Reis riuscì a sfuggire all’armata durante una tempesta e riportò la sua flotta ad Algeri. Fu una delle spedizioni più audaci anche perché la galea di Reis non era una nave adatta all’Atlantico.Morat Reis inaugurò la Salè connection, una sorta di statuto che univa Salè ad Algeri. Se Algeri firmava un trattato di pace con qualche nazione europea, il trattato garantiva che le navi di quella nazione non venissero attaccate dai corsari di Salè. Come in ogni cultura che si rispetti la comunità corsara sviluppò una propria lingua per districarsi dal miscuglio di etnie differenti dei suoi accoliti. Svilupparono il Franco, ossia una lignua franca, o Sabir (dallo spagnolo conoscere). Arabo, spagnolo, turco, italiano, provenzale, portoghese, francese e inglese furono i bacini da cui attingere i termini comuni. Il Sabir morì col fenomeno corsaro ma sapere che è esistito ci fa cambiare un po’ l’opinione che la pirateria fosse solo una casuale unione di rinnegati e fuggiaschi. Quando si sviluppa una lingua vuol dire che alle spalle vi è una cultura definita. Quando una comunità sceglie un termine per identificare una situazione, un verbo per indicare un’azione precisa stabilisce anche un marchio di identità del proprio gruppo.
Un libro interessante che contribuirà ad allargare un pochino l’orizzonte della nostra conoscenza sulla storia occidentale che non fu fatta solo di guerre su terra decise da sovrani imbalsamati sui loro troni. A questo proposito non posso non ricordare Elisabetta I d’Inghilterra che si avvalse furbescamente dell’aiuto del pirata Morgan nella guerra contro la Spagna.
Buona lettura e all’arrembaggio!