venerdì 3 ottobre 2008

Miracolo a S. Anna


Riprendo un vecchio articolo apparso su Repubblica per parlare del nuovo film di Spike Lee Miracolo a Sant’Anna in uscita al cinema in questi giorni. La sceneggiatura, tratta dal romanzo omonimo di James McBride, rievoca la strage di Stazzena in Versilia, dove il 12 agosto 1944 quattro colonne di SS della sedicesima divisione Panzergrenadier sterminarono 560 fra vecchi, donne e bambini. L’associazione partigiana ANPI ha accusato Spike Lee e McBride di revisionismo perché nel film la strage sembra essere provocata dal tradimento di un partigiano.
L’associazione partigiana sembra aver dimenticato un dato fondamentale e cioè il fatto che il film è tratto da un romanzo, non dai verbali dell’indagine e del successivo processo. Non ho ancora visto il film e immagino che una rievocazione romanzata di un fatto così terribile non sia il massimo del buon gusto per chi è sopravvissuto all’eccidio e magari è ancora in vita. Io so che andrò a vedere un’interpretazione hollywoodiana della nostra storia recente. Gli americani i film di guerra li sanno fare ma non sanno raccontare la verità. Non glielo possiamo chiedere. A loro piace così e se noi andiamo a cercare la verità in un film americano è meglio che rinunciamo. Spike Lee è un narratore e un poeta ma io non troverò la verità su David Berkovitz nel suo film Summer of Sam, né troverò nomi e cognomi in Fa la cosa giusta (che tratta comunque un episodio di cronaca). Insomma la polemica mi sembra sterile, anzi mi ricorda le grida starnazzate della chiesa e dell’Opus dei sul codice Da Vinci. Chi si sente minacciato da un film o da un libro per come la vedo io dà l’impressione di non sentirsi del tutto dalla parte della ragione.

Ecco l’articolo:

SANT'ANNA DI STAZZENA - Quel forestiero gli era sembrato tedesco: alto, capelli grigi, espressione chiusa. Avrà avuto, a giudizio di Ennio Mancini, almeno 75 anni. Gli era venuto subito il sospetto che potesse essere "uno di quelli". Oggi pensionato, Mancini è il responsabile di un piccolo museo. Ma il forestiero non sembrava molto interessato. Per quasi mezz'ora si era aggirato tra la piazzetta e il sagrato, una carta topografica in mano; con piglio da conoscitore aveva ispezionato i fori dei proiettili sul monumento ai caduti. Volgeva spesso gli occhi in direzione delle casette di pietra arroccate sul pendio. Frattanto, la donna che era con lui esaminava i cimeli del museo. In una vetrina foderata di rosso, un portafogli sdrucito con qualche vecchia banconota da un lira, foto bruciacchiate, un cappello, varie fedi, braccialetti e rosari, un paio di bretelle strappate il quadrante arrugginito di un orologio fermo alle 6 e 52. I ricordi di un villaggio spento. Il 12 agosto 1944 più di quattrocento persone furono trucidate qui, a Sant'Anna di Stazzena, tra Lucca e Carrara. Molti morirono sotto quei platani o sul sagrato. Più di due terzi delle vittime erano donne e bambini. Ennio Mancini, uno dei pochi sopravvissuti, aveva allora 7 anni. L'eccidio perpetrato su quei monti della Toscana non è noto come altre analoghe sanguinose vicende. Per questo Mancini trovava singolare che i coniugi tedeschi avessero avuto l'idea di recarsi in quel villaggio sperduto sulle Alpi Apuane. Incuriosito, chiese alla signora se per caso "suo marito fosse già stato da queste parti". Gli vengono i brividi quando mi ripete la risposta, pronunciata in un italiano stentato: "Sa, mio marito era nelle Waffen-SS. Anche qui in Italia... Ma non ne parla mai".I due forestieri non scrissero nulla sul libro dei visitatori del piccolo museo. Se lo avessero fatto, avrebbero forse dato una mano al procuratore Giovanni Ballo del Tribunale militare di La Spezia, che ha recentemente aperto un'altra inchiesta su quella strage. I superstiti sono stati ascoltati dai carabinieri, nel tentativo di raccogliere indizi sui militari tedeschi coinvolti in quell' episodio. Il procuratore Ballo non parla ma conferma di aver ottenuto anche l'aiuto della giustizia tedesca. Nella cittadina di Pietrasanta, incontriamo sulla piazza del mercato Agostino Bibolotti, 84 anni: statura bassa, ispide sopracciglia nere. All'alba del 12 agosto i tedeschi lo avevano prelevato a forza per fargli trasportare una pesantissima ricetrasmittente. Quel giorno sentì gli spari e le urla, vide le case in fiamme e i cadaveri carbonizzati. Lo deportarono in un campo di lavoro in Germania. Quando, un anno dopo, tornò a Sant'Anna, la sua famiglia non c'era più. Erano stati uccisi tutti, tranne un nipote che oggi ha 61 anni. Si trovava allora in una stalla, paralizzato dal terrore. Sua madre aveva lanciato uno zoccolo in testa a un soldato, ed era stata immediatamente falciata da una scarica di mitra.Negli Anni '60 e '70, in seguito a una nota verbale italiana, fu aperta in Germania un'inchiesta su alcuni episodi, ma i magistrati incaricati si affrettarono quasi subito ad archiviare il tutto. Come uno dei procuratori aveva annotato sugli atti, i testimoni erano "meridionali, e come tali inclini all'esagerazione". Per i massacri di Sant'Anna esistono però anche le testimonianze di alcuni tedeschi mai interrogati. Uno dei soldati coinvolti in quel massacro vive in una cittadina della Germania del sud. "A Sant'Anna è stato terribile" dice. Sembra provare un vero sollievo per la nostra visita. "Finalmente qualcuno chiede notizie di quella faccenda". Dato che vuole rimanere anonimo, lo chiameremo Heinz Otte. Non è più stato in Italia da allora. "Proverei troppi rimorsi", dice. "Non dimenticherò mai gli occhi terrorizzati di due donne, che in mezzo a quel mattatoio erano rimaste sedute sul bordo della strada. I camerati urlavano: "Le dobbiamo fucilare". Io allora mi misi a sedere accanto a loro e dissi: "Ma no, non vi fucilano"". Otte era capoplotone nella 16a divisione dei granatieri corazzati delle SS, denominata "Reichsführer SS", che dal maggio '44 conduceva una disperata battaglia difensiva retrocedendo verso nord lungo la Riviera ligure. "Il nostro era il commando dei forsennati di Himmler". Alle spalle del fronte, le unità della 16a divisione organizzavano frequenti spedizioni punitive contro i partigiani veri o presunti. A 17 anni Otte, classe 1925, era passato dal Reichswaffendienst (Servizio del lavoro) alle Waffen- SS: "Non andavamo tanto per il sottile", ammette, anche se sostiene di non aver ucciso nessuno in quella mattinata d'agosto. L'ordine di scatenare l'azione punitiva era arrivato la sera precedente. La pattuglia di Otte era non lontano da Pietrasanta. "La zona era piena di partigiani, ci diedero l'ordine di sparare a vista". Il villaggio aveva allora circa 300 abitanti, per lo più contadini poverissimi o minatori occupati nelle miniere di ferro e di zolfo. Ma nell' estate del '44, in quelle casette grigie, sparse sul pendio o raccolte nelle piccole frazioni di Vaccareccia, Bambini o Le Case, erano alloggiati anche circa 700 sfollati, per lo più donne e bambini provenienti da Pisa, da Pietrasanta o da Lucca.La mattina del 12 agosto 1944 il cielo era di un azzurro splendente. Alcune donne accendevano i forni per cuocere il pane. Si era alzato presto anche Enrico Pieri, che allora era un bambino di 10 anni. La sera prima suo padre aveva abbattuto una mucca; aspettava il macellaio che avrebbe dovuto squartarla. I tedeschi attaccarono il villaggio contemporaneamente da varie direzioni. Pieri ricorda che alla frazione Franchi incominciarono a battere contro le porte urlando: "Rrrausss!" (fuori!)- Cacciarono la gente dalle case. Una donna che era rimasta sulla porta venne fucilata sul posto. Poco dopo ricacciarono in cucina la famiglia Pieri e quella dei vicini, e incominciarono a sparare. A un tratto il piccolo Enrico sentì qualcuno sussurrargli all'orecchio. Era Grazia, la figlia dei vicini, di quattro anni più grande. Riuscì a nascondersi sotto la scala e ad attirare il piccolo accanto a sé. Alla fine uno dei carnefici ispezionò ancora una volta la cucina. "Una delle mie zie si muoveva ancora", ricorda Pieri. "Quello la finì con un colpo di fucile". Poi gettarono paglia sui cadaveri e appiccarono il fuoco. I bambini riuscirono a fuggire prima che tutto crollasse. Passarono la giornata nascosti nell'orto. Quando il piccolo Enrico ritornò tra le macerie di casa aveva perso la madre (che era al quarto mese di gravidanza), il padre e le due sorelline. Oggi 65enne ripete: "Erano venuti con l'intenzione di uccidere". Del resto, anche Otte conferma: "C'era l'ordine di sterminare i partigiani". E aggiunge: "In quelle zone di montagna, si riteneva che lo fossero praticamente tutti. Ovviamente gli uomini, ma anche le donne. Quelle potevano essere pericolosissime". In varie occasioni, la Wehrmacht aveva dato l'ordine di uccidere anche i civili. Ma in nessuno di questi ordini si era mai parlato dei bambini. Sembra però che a Sant'Anna, in qualche caso, fosse stata proprio la vista dei bambini a scatenare una sorta di raptus sanguinario. "Quando li sentivano piangere, s' innervosivano, diventavano furiosi", hanno detto alcune sopravvissuti. Quel 12 agosto '44 vennero trucidati più di 110 bambini. Il più piccolo aveva 20 giorni. All'inizio, Heinz Otte si era tenuto in disparte. Ma dopo la prima sparatoria, fu anche lui coinvolto. "Ho spalancato la porta di uno di quei cascinali", ricorda. "Era stipato fino all'impossibile! Ho contato più di venti civili rintanati". Allora aveva chiamato i camerati. "Disinfestate quella tana", aveva ordinato il capo. E qualcuno aveva puntato il mitra. "Drrrrr". Otte imita il mitra e dice, guardando la moglie: "Eh sì, Gerda, era questa la musica".Verso mezzogiorno a Sant'Anna di vivo non c'era praticamente più nessuno. Otte ricorda che quando si allontanò con i suoi uomini, sotto i platani c'era una montagna di cadaveri. "Erano accatastati davanti a un grande crocefisso". Si era già allontanato quando alcuni soldati finirono di scaricare i mitra in chiesa, su un bell'organo antico dietro l' altare. Con una granata spezzarono anche la fonte battesimale in marmo. Poi gettarono sui morti i banchi della chiesa, cosparsero il mucchio di benzina e appiccarono il fuoco. Il giorno successivo il parroco accorso da un villaggio vicino contò, solo sulla piazza, 132 cadaveri carbonizzati. Nel villaggio vennero poi trovate e identificate circa 400 vittime. I superstiti ricordano che le SS scesero a valle cantando. Poco dopo la fine della guerra, nel giugno '47, gli inglesi accusarono di questa strage e di altri crimini di guerra il tenente generale delle SS Max Simon, ex comandante della 16a divisione corazzata dei granatieri. Al processo, a Padova, Simon asserì di non sapere nulla e non fu possibile provare il contrario.Nel settembre del '44 i militari Usa trovarono a Sant'Anna i resti di ossa e numerosi denti di bambini, e oltre alle testimonianze dei superstiti raccolsero anche la deposizione di un disertore delle SS. Le copie di quei documenti furono poi inviate in Italia, ma a Roma finirono nel fondo di un magazzino e solo per puro caso quelle carte ingiallite sono state riportate alla luce.Un funzionario dell'amministrazione giudiziaria romana le scoprì in un armadio mentre cercava i documenti relativi al caso di Erich Priebke, condannato nel 1998 per la strage delle Fosse Ardeatine. Le carte ritrovate contenevano i dati particolareggiati di circa 700 casi. Come ha potuto accertare una commissione d'inchiesta, la scomparsa di quei documenti non era casuale, ma rispondeva ad una precisa scelta che risale agli Anni Cinquanta. Quando, in piena Guerra fredda, la Germania entrò a far parte della Nato ed ebbe inizio il riarmo, nell'Italia governata dalla Dc si temeva che il tentativo di far luce su questioni così delicate avrebbe potuto irritare l'alleato di Bonn. Il 10 ottobre 1956 l'allora ministro degli Esteri Gaetano Martino aveva dichiarato che indagini del genere sarebbero servite solo "a incoraggiare le critiche nei confronti del comportamento dei militari tedeschi" e a rafforzare nella Repubblica federale "la resistenza interna contro l'ingresso del paese della Nato". Così, quei documenti rimasero in un angolo per decenni. Ma da qualche tempo la procura militare di Roma ha incominciato a trasmettere questa documentazione ai magistrati. Una delle prove più rilevanti è un lasciapassare rilasciato in data 12 agosto 1944 da un ufficiale delle SS a uno degli uomini costretti a trasportare munizioni a Sant'Anna. Accanto alla firma dell'ufficiale si può leggere sul biglietto il numero di codice FP01011B, che corrisponde senz' ombra di dubbio alla 5a compagnia, II battaglione, 35 reggimento della divisione delle SS. Al comando di quel battaglione c'era l' austriaco Anton Galler, di professione fornaio, che nel 1933 era entrato a far parte di un reggimento di polizia delle SS, e aveva poi partecipato alla repressione di "bande criminali" nonché all'"evacuazione di ebrei e di polacchi": tutte attività delle quali si vanta nel suo curriculum. Dopo la guerra, Galler, classe 1915, ha condotto una vita ritirata a Salisburgo, e nessun procuratore lo ha mai importunato sull' eccidio di Sant' Anna. Negli Anni '80 si è trasferito in Spagna, dove è morto nel 1993. Ufficiale di collegamento era Ekkehard Albert, allora trentenne. Dopo la guerra, dichiarò più volte che riteneva "quasi incredibile" l'esecuzione di donne e bambini. E quando i camerati volevano raccontare i fatti dell'epoca in un libro, sottolineò che era sbagliato "dare agli italiani informazioni su tempi e luoghi".Chi altri deve pagare? Ennio Mancini se lo chiede da una vita. Ha lavorato tenacemente per creare quel museo. Ora segue le indagini. Avrebbe voluto parlarne anche a quello strano visitatore che si aggirava sulla piazzetta. Prima di andarsene, la donna che lo accompagnava tirò fuori dalla borsetta un foglio da 10.000 lire: "Per comprare dei fiori da mettere accanto alla lapide, davanti alla chiesa". Proprio lì si ergeva quella montagna di cadaveri. Lui aveva respinto l'offerta: "Se volete posare qui un mazzo di fiori, fate pure. Ma dovete farlo da voi".
Qui c'è la puntata di Blu notte, intitolata L'archivio della vergogna, dove Carlo Lucarelli illustra la storia dell'inchiesta.