“Un falco volava alto nel cielo sopra Flagstaff, figlio della terra e dell’azzurro. Caleb si fermò e rimase per un attimo a guardarlo finchè non virò verso ovest e divenne un punto lontano. Infine il controluce impietoso del pomeriggio lo cancellò dalla vista. Per la prima volta nella sua vita, osservando il veleggiare di un uccello non ne invidiava la leggerezza, l’eleganza, la libertà che ogni colpo d’ala dichiarava a un mondo fermo immobile sotto. Caleb aveva rispetto per la magica maestosità del volo e per questo non aveva mai cacciato un uccello in vita sua. Ora, in qualche modo, si sentiva sollevato alla stessa altezza di quel falco e nello stesso modo libero.”
Non è la prima pagina ma è comunque l’inizio di una storia avvincente, narrata in un libro molto bello: Faletti, Fuori da un evidente destino, Baldini e Castoldi editore.
Nonostante lo abbia citato all’inizio di questo post, Caleb non è il protagonista del libro ma solo uno dei PNG (personaggi non giocanti come si direbbe se questo fosse un videogioco) della storia. L’ho citato perché quelle righe mi hanno trasmesso l’imponenza, il silenzio e il senso di eternità dei luoghi descritti nel libro. Siamo a Flagstaff, Arizona, la più grande città del nord dell'Arizona e buon punto di ristoro per le visite al Grand Canyon a poco più di un'ora e mezza di macchina dal centro cittadino.
La quarta di copertina ci racconta brevemente i fatti:
“Il passato è il posto più difficile a cui tornare. Jim Mackenzie, pilota di elicotteri per metà indiano, lo impara a sue spese quando si ritrova dopo parecchi anni nell’immobile città ai margini della riserva Navajo in cui ha trascorso l’adolescenza e da cui ha sempre desiderato fuggire con tutte le sue forze. Jim è costretto a districarsi fra conti in sospeso e parole mai dette, fra uomini e donne che credeva di aver dimenticato e presenze che sperava cancellate dal tempo. E soprattutto è costretto a confrontarsi con la persona che più ha sfuggito per tutta la vita: se stesso. Ma il coraggio antico degli avi è ancora vivo ed è un’eredità che non si può ignorare quando si percorre la stessa terra. Nel momento in cui una catena di innaturali omicidi sconvolgerà la sua esistenza e quella della tranquilla cittadina dell’Arizona, Jim si renderà conto che è impossibile negare la propria natura quando un passato scomodo e oscuro torna per esigere il suo tributo di sangue.”
Devo dire che questa quarta non rende affatto giustizia alla storia di Jim Mackenzie, mezzosangue con un segno particolarissimo: gli occhi di diverso colore. Uno nero, eredità del popolo Navajo, cui apparteneva la madre e uno azzurro come gli occhi di suo padre. Due occhi che disorientano, come gli fa notare un suo datore di lavoro. “Come faccio a fidarmi di te se anche i tuoi occhi dicono due cose diverse?” Jim ha anche un nome indiano, nonostante ormai non sia più usanza del Popolo dare un nome indiano ai bambini (così i Navajo chiamano sé stessi, Diné = il Popolo) .
Non è la prima pagina ma è comunque l’inizio di una storia avvincente, narrata in un libro molto bello: Faletti, Fuori da un evidente destino, Baldini e Castoldi editore.
Nonostante lo abbia citato all’inizio di questo post, Caleb non è il protagonista del libro ma solo uno dei PNG (personaggi non giocanti come si direbbe se questo fosse un videogioco) della storia. L’ho citato perché quelle righe mi hanno trasmesso l’imponenza, il silenzio e il senso di eternità dei luoghi descritti nel libro. Siamo a Flagstaff, Arizona, la più grande città del nord dell'Arizona e buon punto di ristoro per le visite al Grand Canyon a poco più di un'ora e mezza di macchina dal centro cittadino.
La quarta di copertina ci racconta brevemente i fatti:
“Il passato è il posto più difficile a cui tornare. Jim Mackenzie, pilota di elicotteri per metà indiano, lo impara a sue spese quando si ritrova dopo parecchi anni nell’immobile città ai margini della riserva Navajo in cui ha trascorso l’adolescenza e da cui ha sempre desiderato fuggire con tutte le sue forze. Jim è costretto a districarsi fra conti in sospeso e parole mai dette, fra uomini e donne che credeva di aver dimenticato e presenze che sperava cancellate dal tempo. E soprattutto è costretto a confrontarsi con la persona che più ha sfuggito per tutta la vita: se stesso. Ma il coraggio antico degli avi è ancora vivo ed è un’eredità che non si può ignorare quando si percorre la stessa terra. Nel momento in cui una catena di innaturali omicidi sconvolgerà la sua esistenza e quella della tranquilla cittadina dell’Arizona, Jim si renderà conto che è impossibile negare la propria natura quando un passato scomodo e oscuro torna per esigere il suo tributo di sangue.”
Devo dire che questa quarta non rende affatto giustizia alla storia di Jim Mackenzie, mezzosangue con un segno particolarissimo: gli occhi di diverso colore. Uno nero, eredità del popolo Navajo, cui apparteneva la madre e uno azzurro come gli occhi di suo padre. Due occhi che disorientano, come gli fa notare un suo datore di lavoro. “Come faccio a fidarmi di te se anche i tuoi occhi dicono due cose diverse?” Jim ha anche un nome indiano, nonostante ormai non sia più usanza del Popolo dare un nome indiano ai bambini (così i Navajo chiamano sé stessi, Diné = il Popolo) .
“Ben tornato a casa Tàà’ Hastiin”
Jim sorrise sentendo il suo nome indiano pronunciato dal vecchio con il suono gutturale e aspirato della parlata Navajo. In realtà tra i Diné, come i Navajo chiamavano se stessi, era scomparsa da tempo l’abitudine di avere un nome indiano come in passato. Ora non c’erano più falchi o aquile oppure orsi da chiamare in causa. Appellativi come Acqua-che-scorre o Pioggia-in-faccia o Cavallo Pazzo appartenevano ormai alla letteratura, alla cinematografia, alla fantasia di qualche bambino o alla curiosità invadente di qualche turista.
Nel suo caso le cose erano andate in modo un po’ diverso. Il giorno in cui era nato, suo nonno lo aveva levato dalle braccia della madre e lo aveva osservato a lungo. Poi lo aveva tenuto per un istante sospeso davanti a sé come per fare un’offerta a chissà quale degli antichi dèi e aveva predetto che in quel bambino ci sarebbero stati tre uomini. Un uomo buono, un uomo forte e un uomo coraggioso. Jim si chiedeva spesso se il vecchio capo non fosse rimasto deluso. In ogno caso, la profezia forse non si era avverata ma il nome era rimasto.
Tàà’ Hastiin
Tre Uomini”
Jim sorrise sentendo il suo nome indiano pronunciato dal vecchio con il suono gutturale e aspirato della parlata Navajo. In realtà tra i Diné, come i Navajo chiamavano se stessi, era scomparsa da tempo l’abitudine di avere un nome indiano come in passato. Ora non c’erano più falchi o aquile oppure orsi da chiamare in causa. Appellativi come Acqua-che-scorre o Pioggia-in-faccia o Cavallo Pazzo appartenevano ormai alla letteratura, alla cinematografia, alla fantasia di qualche bambino o alla curiosità invadente di qualche turista.
Nel suo caso le cose erano andate in modo un po’ diverso. Il giorno in cui era nato, suo nonno lo aveva levato dalle braccia della madre e lo aveva osservato a lungo. Poi lo aveva tenuto per un istante sospeso davanti a sé come per fare un’offerta a chissà quale degli antichi dèi e aveva predetto che in quel bambino ci sarebbero stati tre uomini. Un uomo buono, un uomo forte e un uomo coraggioso. Jim si chiedeva spesso se il vecchio capo non fosse rimasto deluso. In ogno caso, la profezia forse non si era avverata ma il nome era rimasto.
Tàà’ Hastiin
Tre Uomini”
Altro personaggio fondamentale nello sviluppo del racconto è un cane molto speciale, Silent Joe il quale a tratti assume comportamenti molto simili a quelli di un gatto, con la sua indipendenza e l’apparente superiorità che dimostra rispetto alle vicende del mondo.
Eccolo:
“Silent Joe non abbaiava mai. Non l’aveva fatto nemmeno quando era un cucciolo tutto zampe e con addosso una quantità di pelle tre taglie superiore alla sua. Per questo motivo al suo nome originale, Joe, si era ben presto aggiunta la qualifica di silenzioso, che lui si portava appuntata al petto con noncuranza come un’onorificenza. Se ne andava in giro senza parere con la sua andatura dinoccolata al limite della disarticolazione, al punto che guardandolo correre Caleb spesso aveva pensato che i movimenti, più che coordinarli, li sorteggiasse. Ma era il compagno ideale per la caccia con l’arco, quella che Caleb preferiva su ogni altra al mondo, una caccia fatta di appostamenti, immobilità, silenzio e cura del vento, per impedire di essere fiutati dalle prede. Un cervo, se stava sottovento, riusciva a sentire l’odore di un uomo o di un cane a una distanza di ottocento iarde e in pochi minuti quella distanza farla diventare di otto miglia. Non poteva dire che Silent Joe fosse veramente il suo cane, perché quell’animale dava l’idea di appartenere solo a se stesso.” (qui c’è un intervento di Faletti sulla genesi del personaggio Silent Joe ispirato dal meticcio alano Leone, cane dai molti talenti)
L’intento di Faletti non è certo quello di sviscerare le pieghe nascoste della cultura dei nativi americani. Non c’è boria da antropologo improvvisato né volontà di sfoggiare conoscenze approfondite di una cultura antica e ancora forte nonostante le ferite della storia antica e recente, fatta di persecuzioni, espropri, tentativi di assimilazione violenta ed emarginazione economica e sociale. Faletti ci offre solo pochi dati reali che servono a contestualizzare le vicende che racconta e, per quanto mi riguarda, lo fa bene.
Un thriller avvincente e piacevole da leggere.
Assolutamente consigliato.
La copertina del libro riporta un piccolo manufatto Navajo che rappresenta Kokopelli.
Il Kokopelli, figura diffusa nelle culture native del Sud-Ovest (Arizona e New Mexico), è conosciuto sia come guaritore, che come dio della fertilità o della musica.Sebbene non se ne conosca l'origine esatta, si sono trovate rappresentazioni di questa figura sacra alle tribù native, databili a oltre 3000 anni fa.
La figura classica del Kokopelli è infatti quella di un suonatore di flauto provvisto di gobba. La gobba è in realtà un sacco di semi ed è per questo motivo che il Kokopelli è simbolo di fertilità, di abbondanza e di buon auspicio.
Eccolo:
“Silent Joe non abbaiava mai. Non l’aveva fatto nemmeno quando era un cucciolo tutto zampe e con addosso una quantità di pelle tre taglie superiore alla sua. Per questo motivo al suo nome originale, Joe, si era ben presto aggiunta la qualifica di silenzioso, che lui si portava appuntata al petto con noncuranza come un’onorificenza. Se ne andava in giro senza parere con la sua andatura dinoccolata al limite della disarticolazione, al punto che guardandolo correre Caleb spesso aveva pensato che i movimenti, più che coordinarli, li sorteggiasse. Ma era il compagno ideale per la caccia con l’arco, quella che Caleb preferiva su ogni altra al mondo, una caccia fatta di appostamenti, immobilità, silenzio e cura del vento, per impedire di essere fiutati dalle prede. Un cervo, se stava sottovento, riusciva a sentire l’odore di un uomo o di un cane a una distanza di ottocento iarde e in pochi minuti quella distanza farla diventare di otto miglia. Non poteva dire che Silent Joe fosse veramente il suo cane, perché quell’animale dava l’idea di appartenere solo a se stesso.” (qui c’è un intervento di Faletti sulla genesi del personaggio Silent Joe ispirato dal meticcio alano Leone, cane dai molti talenti)
L’intento di Faletti non è certo quello di sviscerare le pieghe nascoste della cultura dei nativi americani. Non c’è boria da antropologo improvvisato né volontà di sfoggiare conoscenze approfondite di una cultura antica e ancora forte nonostante le ferite della storia antica e recente, fatta di persecuzioni, espropri, tentativi di assimilazione violenta ed emarginazione economica e sociale. Faletti ci offre solo pochi dati reali che servono a contestualizzare le vicende che racconta e, per quanto mi riguarda, lo fa bene.
Un thriller avvincente e piacevole da leggere.
Assolutamente consigliato.
La copertina del libro riporta un piccolo manufatto Navajo che rappresenta Kokopelli.
Il Kokopelli, figura diffusa nelle culture native del Sud-Ovest (Arizona e New Mexico), è conosciuto sia come guaritore, che come dio della fertilità o della musica.Sebbene non se ne conosca l'origine esatta, si sono trovate rappresentazioni di questa figura sacra alle tribù native, databili a oltre 3000 anni fa.
La figura classica del Kokopelli è infatti quella di un suonatore di flauto provvisto di gobba. La gobba è in realtà un sacco di semi ed è per questo motivo che il Kokopelli è simbolo di fertilità, di abbondanza e di buon auspicio.