venerdì 21 novembre 2008

Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi

Io se fossi Dio ne fulminerei di preti!
Diversi mesi fa la trasmissione Annozero dedicò un’intera puntata sul documentario della BBC Sex crimes and the Vatican. Si parlò del Crimen sollicitationis e furono intervistate alcune persone che con coraggio raccontarono la loro esperienza di vittime di preti pedofili. Mi colpirono due ospiti. Uno si chiama Marco e ne parlerò in futuro; l’altra era una donna ormai adulta che parlò di come Don Lelio Cantini le rubò l’infanzia e l’adolescenza. Il racconto suo e quello di altre vittime è sul libro Viaggio nel silenzio di cui ho già parlato qui e qui .
La notizia di qualche tempo fa è la seguente: Don Lelio Cantini, parroco dell’arcidiocesi di Firenze, è stato condannato da un tribunale ecclesiastico, quindi su ordine di Benedetto XVI, a due pene: la «sospensione a divinis» e la «dimora vigilata». Il motivo? È stato riconosciuto colpevole di «abuso plurimo e aggravato nei confronti di minori, delitto di sollecitazione a rapporti sessuali compiuto nei confronti di più persone in occasione della Confessione, abuso nell'esercizio della potestà ecclesiastica nella formazione delle coscienze». Così recita il dispositivo della sentenza messo a punto dalla Congregazione per la dottrina della fede, dopo un’indagine istruttoria eseguita da una sua apposita commissione.
Un tribunale religioso ha dunque emesso una sentenza valida solo se il condannato appartiene a quella confessione e, naturalmente non ha alcuna validità in sede civile o penale.
L’impareggiabile rivista Micromega solleva una serie di interrogativi.“Tra i problemi che emergono ne enunciamo alcuni:
– La sentenza accenna a reati plurimi e aggravati di pedofilia (una parola non a caso accuratamente evitata). Ma quali sono nella loro concretezza? Quanti sono? A danno di quanti minori sono stati commessi? E di minori di quale età e di quale sesso? Nulla di preciso emerge dalla sentenza pubblicata dalla stampa. Si sa per vie traverse che si è trattato di adolescenti dai dieci anni in su, forse circa una ventina, di ambedue i sessi, plagiati e stuprati in vari modi dal prete pedofilo. Ad “Annozero”, una signora fiorentina ha raccontato la sua storia orripilante di bambina (la donna che ha parlato ad Annozero) costretta dal prete anche a rapporti orali, poi spinta ogni volta ad ammettere in confessione di essere una «puttana» per ottenere l’assoluzione. Pratica pedofila plurima che si è prolungata in segreto nelle sale parrocchiali per ben oltre 14 anni, dal 1973 al 1987 e dopo. La domanda è: poiché il prete e le vittime sono cittadini italiani, e poiché siamo in uno Stato laico di diritto, le motivazioni analitiche della sentenza ecclesiastica non dovrebbero essere di pubblico dominio, e comunque a disposizione di tutti coloro che ne fanno richiesta? E poi, data la gravità dei reati e l’obbligatorietà dell’azione penale prevista nel nostro ordinamento giuridico, non spetta alla magistratura ordinaria italiana intervenire con rapidità sul «caso», a tutela dei diritti delle vittime, e per punire in modo esemplare il colpevole?
– Il tribunale ecclesiastico ha ridotto il prete allo stato laicale: era un prete, e la Chiesa di cui era prete poteva spretarlo per indegnità morale, o per aver abusato del sacramento della confessione. Bisogna dire che don Cantini, il cui «caso» è esploso solo nel 2004, su denuncia dei parrocchiani, era stato già inquisito dall’arcivescovo di Firenze Ennio Antonelli, nel 2007, e condannato a pene di una mitezza sconcertante: non dire messa in pubblico e fare penitenza, recitando miserere e mea culpa per 5 anni. L’attuale sospensione a divinis è una pena più grave, ma sempre dello stesso ordine.
- La sentenza canonica di condanna, controfirmata da Benedetto XVI, implica però una seconda pena: la «dimora vigilata», o residenza coatta: il prete pedofilo non può abbandonare il Convitto ecclesiastico fiorentino, dove è ricoverato per motivi di salute, altrimenti verrebbe colpito da scomunica (nonostante i gravi reati, fa dunque ancora parte della comunione, o comunità cattolica). Domanda: può un tribunale religioso, non statale e non riconosciuto dallo Stato, applicare misure di restrizione della libertà personale ad un cittadino italiano (come don Cantini era e continua ad essere)? (…) Le misure canoniche di restrizione della libertà del prete fiorentino sono simboliche, astratte, non coinvolgendo nel controllo dei suoi movimenti polizia e carabinieri, di cui il papa, capo di Stato straniero, non dispone in Italia."
E il giorno dopo la scure del Papa, monsignor Claudio Maniago parlò: "I fatti che riguardano don Cantini sono stati per me fonte di sconvolgimento, anzi di interiore sbigottimento."

L´arcivescovo ausiliare uscente di Firenze, nel corso di quella che è stata la prima dichiarazione in assoluto da quando è esploso il caso dell´ex parroco della Regina della pace
Mai, prima d´ora, nonostante le vittime avessero a più riprese chiesto al loro ex compagno di parrocchia, nonché pupillo di don Cantini, di raccogliere le loro denunce (arrivate poi all´arcivescovo Antonelli solo per la mediazione del cardinale Silvano Piovanelli) e di dargli almeno un segno di solidarietà, Maniago aveva rilasciato la più piccola dichiarazione.
Adesso, di fronte a quella che appare come la più pesante smentita della reticenza di Maniago, nonché della sua fiducia incondizionata nell´ex protettore - nel 2003, il giorno della sua consacrazione a vescovo, definito «un prete vero, che mi è stato e mi è di esempio ancora» - il giovane vescovo sembra aver finalmente optato per una improvvisa apertura.
Maniago sostiene quindi di aver mantenuto «riservatezza» non «perché avessi sottovalutato la gravità dei fatti, ma per rispettare la discrezione richiesta da un caso così doloroso, sostenendo il delicato lavoro di discernimento che ha impegnato prima il cardinale Antonelli e poi la Santa Sede». La «nitida» decisione del Papa, perciò, conclude, «aiuta a riconoscere il peccato e costituisce per il peccatore un´occasione di espiazione e di richiesta di perdono», mentre «nessuno scandalo deve poter fermare il cammino di fede». Quanta santità in queste parole! Ma, come dice il detto popolare, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi e la puzza del marcio di quelle parole si sente anche in procura.
Oggi l'inchiesta penale su don Lelio Cantini entra nelle stanze della curia. Esplora i rapporti tra il prete e il suo allievo prediletto, il vescovo ausiliare Claudio Maniago. Verifica alcune denunce che lo coinvolgono in festini a luci rosse e tentativi di plagio di alcuni fedeli per costringerli a cedere le loro proprietà. L'alto prelato non risulta iscritto nel registro degli indagati, ma nei suoi confronti sono già stati disposti accertamenti e controlli. I magistrati hanno acquisito i tabulati delle sue telefonate e ora si concentrano sui conti correnti bancari proprio per stabilire la fondatezza delle accuse.
Due dipendenti della curia e due sacerdoti accusano Maniago di aver sempre saputo quale fosse la vera attività di don Cantini, che era il suo padre spirituale, e di averlo «coperto». Lo accusano soprattutto di aver partecipato alla gestione del patrimonio immobiliare sottratto ai parrocchiani. Poi vanno oltre e sostengono che anche lui avrebbe partecipato a festini a luci rosse. Parlano di diversi episodi, l'ultimo sarebbe avvenuto nel 2003. «Più volte — affermano — ci ha minacciato per costringerci al silenzio, ma adesso non possiamo più tacere». Il 21 aprile scorso, il pm Paolo Canessa, riceve nel suo ufficio un uomo, P. C., gay dichiarato, che ha riconosciuto nella foto pubblicata sulle pagine locali di un quotidiano il vescovo Maniago, come colui che partecipò, nell’agosto di dieci anni fa, a un incontro «sadomaso». «Era agosto 1996 — racconta — e io, che sono omosessuale, avevo messo un annuncio su un giornale, nella rubrica "incontri sadomaso". Attraverso il fermo-posta fui contattato da una persona che mi diede appuntamento alla Certosa. Quando arrivò mi accorsi che era un sacerdote. Mi portò in una parrocchia vicino Cecina dove c'era anche un dormitorio estivo. Mi disse di chiamarsi don Andrea. Lì trovammo un altro prete e due ragazzi, certamente meridionali. Ebbi con lui un rapporto sessuale, poi rimasi la notte. Il giorno dopo mi dissero che sarebbe arrivato quello che loro chiamavano "il padrone". La sera ci fu l'incontro di gruppo, quel sacerdote l'ho riconosciuto in fotografia. Era Claudio Maniago ».L'uomo entra nei dettagli, si sofferma sui particolari. «A un certo punto dissi basta, non potevo continuare». Paolo C. ricorda la sua fuga, la crisi. Dice di averne parlato con don Andrea «che in seguito mi aveva contattato varie volte». E aggiunge: «Mi offrirono dei soldi, poi mi fecero un bonifico. Avevo paura che si potesse pensare a una sorta di estorsione per comprare il mio silenzio, ma loro mi dissero che volevano farmi soltanto un'offerta». Sono poco più di tre milioni di lire. Il testimone fornisce i dati per risalire all'operazione, i pubblici ministeri delegano la polizia a effettuare le verifiche. Il passaggio di denaro viene rintracciato sulla Banca delle Marche. Ora proseguono gli accertamenti patrimoniali per scoprire se ci siano stati altri episodi analoghi. Soltanto quando il quadro sarà completato si deciderà se formalizzare le accuse. Prima dell'iscrizione nel registro degli indagati i magistrati vogliono incrociare i dati a disposizione ed effettuare altri riscontri.