NICHOLAS CARR è un giornalista americano che si occupa di tecnologia e cultura e sostiene che coloro che partecipano a social network pubblicando foto e commenti, o coloro che curano un blog, col tempo sviluppano un’ansia da avatar.
Dice Carr: “Costruiamo la nostra identità online con le storie e le foto che decidiamo di condividere. Ma raccontare agli estranei i dettagli della nostra vita può essere inquietante.Il nocciolo della questione è: sei tu che crei la tua identità online. E visto che questo determina il tuo ruolo sociale su internet, tutte le decisioni che prendi su come raccontare te stesso, le verità o le bugie, le foto che mostri, le persone con cui fai amicizia, i libri e i film che preferisci, le parole che usi nel blog, ogni cosa presenta, in modo più o meno sottile, una specie di pericolo esistenziale. Sei responsabile delle tue scelte: dopotutto, sei il genitore del tuo avatar. Abbandonare il mondo reale per partecipare a una comunità online non attenua l'ansia dell'autocoscienza, ma la amplifica. Sei molto più esposto.Per quanto si sappia, gli psichiatri non hanno ancora riconosciuto l'ansia da avatar come una malattia reale. Sono certo che ben presto lo sarà, soprattutto dopo aver letto un breve articolo di Steven Levy su Wired intitolato "Il peso di Twitter".Levy scrive che adora il social networking ma il suo sé online lo mette in agitazione. Si sente in colpa se non aggiorna il blog, se commenta poco o lascia prosciugare il flusso di messaggi su Twitter. "Ho l'impressione di rubare bocconi prelibati dal banco dell'informazione senza dare nulla in cambio", ha scritto. Fin qui nulla di strano.Molto più interessante, invece, è la sensazione che dice di provare quando partecipa: "Appena ricomincio a scrivere soffro di un altro problema: il rimorso. Più aggiungo piccoli dettagli della mia vita (per esempio, un messaggio che dice dove mi trovo) più mi sembra di espormi troppo. Condividere l'intimità con una persona va bene, ma farlo con un'intera comunità è inquietante". E conclude con una battuta: "Ecco, ora mi sento in colpa perché provo rimorso. Forse dovrei scriverci un post".Avrei voluto che l'articolo fosse più lungo e che avesse approfondito maggiormente quella sensazione di inquietudine che condivido completamente. Levy accenna al fatto che nel mondo del web 2.0 parliamo in modo intimo, o almeno familiare, anche con dei perfetti sconosciuti (che però, a volte, definiamo "amici").Parlando di cosa si prova a scrivere un messaggio su Twitter che sarà letto da centinaia di estranei, Levy afferma: "Non conosco personalmente tutte le persone che mi seguono online, quindi cerco di non rivelare dettagli troppo personali. Ma per quanto il singolo messaggio sia innocuo, l'insieme finisce per tracciare un autoritratto spaventosamente dettagliato. È una specie di strip poker: con quei 140 caratteri per volta mi metto completamente a nudo".Non la nomina mai, ma Levy in realtà parla della vergogna. Nasce da qualcosa di più profondo dell'esporsi in pubblico: c'è una sorta di arroganza nel condividere con degli estranei i dettagli della propria vita.È l'arroganza del potere, l'idea che in qualche modo questi dettagli meritano di essere resi pubblici. Gli sconosciuti destinatari delle nostre rivelazioni li leggono con avidità ma, a forza di darci troppa importanza, finiscono per svilire loro stessi.Forse esagero, ma trovo che in questo scambio c'è una forma di sadomasochismo, un po' come nel legame tra celebrità e fan. E sono quasi sicuro che Levy prova rimorso perché si rende conto, in modo più o meno cosciente, di essere un po' arrogante e di svilire i lettori.”
Questo è il pensiero di Carr. Effettivamente il senso di colpa per il mancato aggiornamento del blog lo posso testimoniare personalmente e questo accade a prescindere dal numero di lettori effettivi. Scatta un senso di responsabilità verso la nostra creatura in rete. Quanto al rapporto di dominio/sudditanza tra autore e lettori non so esprimere ancora un parere. Certo è che qualunque forma di avatar o di presenza in rete ha un po’ il sapore della ‘seconda chance’. Ci si veste di un avatar e un nick, ci si propone al meglio di noi con le foto più belle o con la firma più incisiva. Selezioniamo le informazioni sul nostro conto, magari non tanto per risultare attraenti, quanto per non sembrare sfigati. Forse è ancora presto per la nascita di una letteratura antropologica specifica, ma sicuramente fenomeni come blog e social network, ma anche forum, costituiscono terreno fertile e materia di studio per esperti della psiche e della cultura umana.